Abbiamo archiviato il 2010, non solo un anno ma anche la fine del primo decennio del nuovo millennio. Un decennio che iniziò con grandi speranze ma che non pochi problemi ha lasciato irrisolti, semmai aggravati. Non si sono risolti i conflitti planetari, si sono aggravate le disuguaglianze tra paesi poveri e ricchi, alcuni dei quali sono diventati, per effetto di una crisi economica tanto globale quanto per certi versi prevedibile, un po’ meno ricchi. La ricchezza produttiva si stà spostando dal modo occidentale, troppo impantanato in un eccesso di regole, a quello orientale.
Grandi questioni queste, rispetto alle quali quelle che da oltre lustro solleviamo su queste pagine possono sembrare minimali e, in parte, forse lo sono.
E tuttavia queste questioni, con le quali spero in questi anni non avervi troppo annoiato, non sono estranee allo stato di disagio che il nostro Paese ha vissuto e vive.
Abbiamo sperato, tante volte e a vuoto, che finalmente si potesse procedere alla riforma degli ordinamenti professionali, delle competenze, a un nuovo riconoscimento del valore etico-sociale oltre che economico delle prestazioni intellettuali che al pari di altre, se non più, costituiscono ora come in passato la linfa e il motore dello sviluppo del Paese.
Abbiamo sperato in una riforma degli ordinamenti universitari molto diversa da quella attuata dai passati Governi che ha fortemente penalizzato tanto la possibilità di fare ricerca (quella vera e non quale surrogato di un posto di lavoro o fatta per elargire prebende e stipendi) quanto la capacità di trasferire conoscenza, base per l’innovazione. Quella recentemente approvata, con tutte le sue inevitabili criticità, da questo punto di vista appare troppo timida e poco legata alle problematiche del mondo lavorativo, almeno per quello che io conosco meglio e cioè quello tecnico.
Si sono complicate, in questo decennio, le procedure con la scusa di semplificarle. Il risultato, peggiorato dalla crisi economica, è un saldo occupazionale e di investimenti infrastrutturali pesantemente e preoccupantemente negativo, che rende l’Italia ancor meno competitiva nel mercato globale con il quale ci dobbiamo confrontare, dato aggravato dalla cronica lentezza delle procedure giudiziarie che non rende appetibile il nostro Paese per gli investitori, non solo stranieri.
Se un addebito possiamo porre all’attuale Governo è di non essere riuscito ancora a liberare il mondo del lavoro e delle imprese da una burocrazia e una normazione a volte bizantina se non ottusa; di non essere riuscito, ma forse non è tutta colpa sua, ad alleggerire il peso dello Stato e quindi del fisco che ha raggiunto, e da tempo, livelli insostenibili per chì non si dà all’evasione o peggio.
E tuttavia abbiamo il dovere della speranza e dell’ottimismo: perché non esiste sviluppo culturale o economico che non si fondi su di esse, perché solo la voglia di fare, di crescere, di migliorare può essere il motore dello sviluppo della Nazione, perché gli ostacoli e le difficoltà, un po’ troppi in verità, sono fatti per essere superati. Certo, compito della Politica dovrebbe essere quello di concorrere alla rimozione di questi ostacoli anche regolando i rapporti sociali ed economici nel rispetto dei reciproci interessi ma, soprattutto, nell’interesse generale. Che questo poi avvenga è, come vediamo, tutta un’altra storia.