Nei primi decenni del secolo scorso vi fù un fervido movimento sperimentalista sui nuovi modi di abitare, costruire, sui nuovi modelli di città; teorie che poi si concretizzarono , tra gli anni venti e metà dagli anni trenta, nella scuola del Bauhaus che diede vita al movimento razionalista ed all’architettura moderna- il cosiddetto stile internazionale- le cui massime espressioni furono Gropius, Le Corbusier, Mies Van der Rohe, Alvar Aalto, con i loro successivi epigoni. Era il fervore della rinascita europea dopo la prima Grande Guerra; vide paradossalmente questo movimento una certa radicazione anche durante le dittature tedesche e italiane, si trasformò poi nel linguaggio, purtroppo banalizzato e acritico, con il quale abbiamo ricostruito le nostre città.
Assistiamo oggi ad una nuova forma di sperimentalismo, fatto in nome della sostenibilità, che però , se “ismo” dev’essere, a volte sà più di formalismo e sensazionalismo.
Mi riferisco alle proposte di costruzioni che, con la scusa di realizzare i principi dell’ecologia e della sostenibilità, si pongono come archetipi, modelli di un nuovo mondo: che poi sia anche più bello è tutto da discutere.
Ne abbiamo già descritte commentate alcune negli anni passati, a volte con interesse a volte criticandole; oggi un’altra ancora si affaccia all’interesse dei media, a firma dell’architetto russo Alexander Remizov, che propone il suo progetto “Arca”. Arca perché si tratta di una città- meglio una costruzione gigante- per diecimila abitanti, realizzata in acciaio, legno e plastica ad alta resistenza con la caratteristica di poter galleggiare oltre che poggiare sul suolo.
Geometricamente si tratta di un semianello, una specie di guscio conchiglioide vetrato entro il quale ubicare abitazioni, servizi, verde e tutto quanto serva a una città immagino del tutto cablata.
Una balzaneria giustificabile appunto con la sperimentazione, non dissimile nei concetti da altri esempi di cui abbiamo già parlato, tipo l’ipotesi Ziqqurat -avveniristica ma angosciante piramide gigante da realizzarsi, manco a dirlo, in un emirato- o la più interessante e concreta Masdar City, progettata da Norman Foster, in corso di realizzazione.
Una balzaneria che però è uno di quei tasselli che rappresentano il percorso verso un nuovo modo, un nuovo linguaggio che l’architettura, lo spazio, i modelli di vita e abitativi cercano di raggiungere, non sapendo bene dove andare: d’altronde senza il gusto per l’ignoto, per l’avventura, nessun progresso l’umanità avrebbe mai fatto, e su questa strada molti hanno smarrito il cammino oltre che, a volte, se stessi.
Il problema, o il trucco se volete, è quello di guardare a queste sperimentazioni con rispetto ma anche con disincanto e consapevolezza, sapendo che tra coloro che le propongono con la finalità della ricerca e della sperimentazione si annida, inevitabilmente, qualche furbo che della necessità di pensare sostenibile ed ecologico fà paravento per cercare notorietà e magari ricchezza.
La ricerca, la sperimentazione, sono una cosa seria, espongono a continui insuccessi prima del risultato utile; nel campo dell’architettura e dell’ambiente possono esporre a gravi problemi ed è per questo che avremmo bisogno che le sperimentazioni teoriche e pratiche avessero un luogo deputato dove farsi. L’Università e i centri di ricerca ne sono certamente i punti nodali, sicuramente meglio di qualche bella immagine su una rivista patinata o un sito internet.