Gli architetti adottano una chiesa

Il dibattito sulla conservazione dell’ingente patrimonio storico-culturale, che il nostro Paese possiede, ha raggiunto recentemente livelli d’intensità e scontro notevoli, complice il crollo di Pompei -evento emblematico- solo ultimo tra tanti episodi di una generale trascuratezza e approssimazione politico-gestionale risalente a molto tempo fa.

D’altronde la difficile congiuntura economica, che ancora grava sull’economia, rende difficile reperire risorse  specie se l’investimento nella cultura è considerato mera spesa. Ed è comunque vero che nel passato, tanto lontano quanto recente, sprechi e malgoverno se non sono stati la regola  certo non sono mancati.

Tuttavia il nostro immenso patrimonio storico-culturale è bene irriproducibile e quindi ciascuno di noi, nell’ambito delle singole responsabilità e possibilità, deve farsi carico del problema e contribuire a dare una mano. Prima degli altri le classi dirigenti.

Ecco perché la comunità degli architetti della provincia catanese ha studiato e proposto alla Curia un protocollo d’intesa volto a rendere possibile l’adozione di singoli beni architettonici religiosi da parte di architetti-volontari. Volontari, sì, perché il termine stesso “adozione”, prefigura una assunzione di responsabilità e di obbligo che è morale e che si può configurare come atto d’amore.

Amore per la propria terra, per la propria cultura, atto di responsabilità “missionario” come in un certo senso è insito nel mestiere dell’architetto che, dalla notte dei tempi, ha la missione -il compito riconosciuto- di governare le trasformazioni del territorio e del paesaggio, di costruire e conservare edifici per rendere il più felice possibile la vita dell’uomo.

Adozione significa anche rinuncia, a fronte dell’atto d’amore, a qualsiasi ricompensa che non sia la gratificazione interiore derivante dall’averlo fatto.

Ed è con questo spirito che la comunità degli architetti si è proposta, spirito non nuovo in verità e in altre occasioni dimostrato.

Tuttavia, la cinicità dei tempi che viviamo non sempre rende comprensibile un simile atteggiamento, anzi a volte il disinteresse materiale può essere inviso perché possibile elemento scardinatore di equilibri consolidati.

L’evoluzione della proposta fatta, i tempi con i quali troverà eventualmente accoglimento, i modi con i quali dovesse essere attuata, ci diranno come e se l’assunzione di responsabilità sarà stata accettata.

Ci diranno anche quanto la società, la politica, siano pronte a riconsiderare il loro rapporto con l’ambiente, con il paesaggio, con la storia e la cultura, con le sedimentazioni antropiche, da troppo tempo basato solo ed esclusivamente sulla logica del mercato al ribasso e non per gli intrinseci valori in gioco. Logica del mercato che, nella sua deteriore applicazione specificamente tutta italiana, ha dimenticato come questa materia debba essere governata da competenze specifiche e particolari e non è possibile sia solo un dato quantitativo se non merce di scambio.

Ecco, questo sì che sarebbe un buon motivo per chiedere le dimissioni del Ministro della Cultura

(Bondi o chicchessia),  perché un Ministro della Cultura, che fosse tale, questo modo di fare mercato  dell’intelligenza e dell’approfondimento tecnico-culturale  dovrebbe contrastare, quanto e più che i tagli di bilancio.

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